Luoghi sempre più comuni

Uno scorcio del Grosser Garten di Dresda.

Uno degli aspetti potenzialmente più fastidiosi del vivere all’estero è il venire a contatto con i pregiudizi ed i luoghi comuni più odiosi che, nel mondo intero, ci fanno da poco edificante biglietto da visita. Qui in Germania a dire il vero tale problematica si sente davvero molto poco (chissà se, oltrepassando il Fréjus invece che il Brennero, avremmo potuto dire altrettanto…). Eppure, anche qui, la lunga eco delle tradizioni più o meno lusinghiere del Bel Paese ha la sua risonanza all’interno della nostra vita quotidiana. Ad esempio ti può capitare di andare a fare un colloquio di lavoro presso un istituto linguistico, in cui ti spiegano che il loro metodo prevede di parlare agli allievi esclusivamente nella lingua di insegnamento, accompagnandola però con un abbondante gesticolare, “cosa che per Lei, in quanto italiano, certamente non sarà un problema”. Un sorriso sardonico, un pensiero impronunciabile, una teutonica stretta di mano, poi esci, vai a casa ed accendi la tv locale. E chi ti trovi davanti? Un tuo sedicente conterraneo, che si piega ad annusare un piatto di spaghetti (sicuramente stracotti) esclamando “Amore!”. Ma quale italiano lo farebbe mai? È come se Rai Uno ospitasse un tedesco che contempla l’indice dello spread affermando gongolante “Müller Thurgau!“. Eppure questo assurdo mélange di luoghi comuni funziona eccome, ed il messaggio evidentemente arriva, tant’è vero che quella marca di pasta qui in Sassonia viene copiosamente acquistata.

D’altra parte ci sono i luoghi comuni in positivo, che però il più delle volte sono quelli che accompagnano il nome della Germania in Italia, piuttosto che il contrario. Se da una parte un’idealizzazione della perfezione e del perfezionismo tedeschi sarebbe piuttosto lontana dalla realtà, è pur vero che oggettivamente abbiamo assistito a scene che ci hanno spinto a chiederci “Okay, dov’è la telecamera?”. Pensiline alla fermata dell’autobus che vengono ripulite con straccio ed olio di gomito, ed addetti che passano l’aspirapolvere in piazza, solo per fare qualche esempio. E poi, parola d’onore, non sappiamo come ma la radio nelle gallerie tedesche prende sempre, e non si spegne in un progressivo silenzio man mano che ci si addentra, per riconquistare un filo di voce non prima di intravedere l’uscita, come succede a tutti noi quando ad agosto saltiamo in auto verso la Liguria. Se il trucco c’è, non si vede. Adesso starà a noi conquistarci qualche luogo comune di cui essere fieri. Magari ricordandoci, nel caro vecchio Piemonte, di non dare del “marocchino” a tutti i commercianti di colore che incontriamo.

Mai provato il caffè De Caffeinato?

Spezie in ordine alfabetico.

I luoghi comuni, sempre loro, i nostri fedeli compagni di viaggio nell’era di internet, dei boing, di Schengen e del mercato globale. In un primo momento è divertente vederli confermati, ma sul lungo periodo dà più soddisfazione trovare il modo di smentirli. Qui in Germania capitano l’una e l’altra cosa. Il campo in cui i non del tutto immotivati stereotipi trovano il proprio terreno più fertile è senza dubbio quello alimentare, e c’è da dire con un certo sconforto che l’ignoranza reciproca è piuttosto radicata. Trovare un italiano, sudtirolesi a parte, che pronunci correttamente “würstel“ costituisce già di per sé un’impresa. Se non ci riuscite poco male, dato che (sorpresa!) qui “würstel“ in realtà non lo dice nessuno! Non è questa infatti la parola comunemente utilizzata per i tipici salsicciotti mitteleuropei, almeno non nella stragrande maggioranza delle regioni. Ma anche gli autoctoni, che pure della nostra cucina si dicono tanto appassionati, in quanto a strafalcioni non scherzano affatto. Quante mattine passando davanti ad un bar si sente ordinare un “latte macciato”, e quanti menu ci offrono per iscritto gli Anti Pasti (per non parlare del caffè dei nobili, l’egregio commendator De Caffeinato, specialità locale). D’altro canto, a ben vedere, non c’è motivo di correggere con snobismo le piccole convinzioni (e convenzioni) errate di uno stato in cui trovi ovunque il succo di cavolo in confezione da un litro, mentre quello di albicocca è considerato una sorta di buffa primizia che una ed una sola ditta commercializza in tutto il territorio. Stravaganze che comunque si sopportano volentieri, quando si vive in un luogo in cui persino le spezie, al supermercato, vengono disposte in ordine alfabetico. Ah, il piacere dell’organizzazione! Un brivido sconosciuto al popolo del sole, del cibo sano e delle tempistiche puntualmente disattese.

Ma l’Italia, statene pur certi, si sa far riconoscere più o meno ovunque. Una sera ci troviamo davanti al teatro per goderci il Rigoletto, e già pregustiamo la prospettiva di essere gli unici nella sala ad aver pagato per qualcosa che poi verrà effettivamente compreso, quando scopriamo che la cassa è insolitamente chiusa. In compenso c’è un tizio in bermuda hawaiani e lunga coda di cavallo che avvicina i passanti nel tentativo di vendere loro dei biglietti d’ingresso, di cui la sua borsa sembra essere fonte magicamente inesauribile. Qualcuno lo chiama: «Vito!». Abbiamo già capito tutto, prendiamo e ripieghiamo su una passeggiata sull’Elba al tramonto, in attesa di una soirée in cui gli unici italiani che incontreremo siano quelli di cui possiamo andare fieri, quelli che con voce stentorea, muovendosi sopra il palco, mantengono vivo il ricordo di un Paese dell’Arte che, purtroppo, non c’è più.

Ma Bussoleno non era in Val Susa?

Dresda, mercatini di Natale. Castagne di Bussoleno.

Spesso ci si meraviglia della frequenza sempre maggiore con cui le nuove generazioni imballano, con i vestiti ed i libri, la propria intera vita, e la trasferiscono all’estero. Questo perché tale scelta viene considerata, a ragione, un grande passo, un atto di coraggio, un salto nel buio. Eppure con il passare dei mesi, esaurita la sorpresa iniziale, il modello mentale della propria quotidianità si riqualifica nel paese d’adozione – tra quelle strade, con quelle persone, in quella lingua – e ciò che ieri appariva una curiosa stranezza locale, si consolida oggi in nuova abitudine. A tal punto che, se si è di passaggio nella vecchia Italia, ci si sorprende a fare riferimento a quell’angolo di estero ormai nostro con l’eloquente sostantivo di “casa”, in maniera spontanea e del tutto involontaria. Non è più causa di stupore dover lasciare il 10% di mancia al ristorante, avendo cura però di arrotondare all’euro, e non al centesimo, come il rigore matematico ti avrebbe imposto, per non incontrare espressioni sbigottite. Non appare più buffo sentirsi dire dalla parrucchiera, dopo il taglio, che la sola asciugatura in negozio ti costerà ulteriori dieci euro, ma potrà divenire gratuita se provvedi da solo in loco, ragion per cui dalle vetrine puoi scorgere torme di clienti affaccendati fare da sé. Non è più disorientante che alla fine di ogni lezione universitaria tutto il pubblico studentesco colpisca con le nocche il proprio banco, bussi collettivamente, per così dire, a mo’ di applauso e di saluto. E riesci finalmente a dare per acquisito che i mezzi siano puntuali, e la mensa dell’università addirittura buona (i reduci di Torino – a cui va tutta la nostra solidarietà – ben comprenderanno la nostra incredulità). Scopri perfino di star acquisendo qualcosa del dialetto locale. Fino a che un giorno, in pieno centro, al grido di ganz frisch aus Sachsen! (“freschissime dalla Sassonia!”), non trovi un venditore di castagne che certo non può sapere che tu capisci benissimo cosa significano le scritte “Bussoleno” e “Cuneo”, che comicamente lo smentiscono dal sacco di juta contenente la sua merce. Ed è così che, con una risata di cuore ed una storica fotografia insieme ad un sacco di castagne, conquisti la certezza che non ti dimenticherai mai da dove sei venuto.